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Corriere Buone Notizie | La sostenibilità reale e quella di chi fa finta (it)

La sostenibilità reale e quella di chi fa finta.

Elena Comelli interviews Mario Calderini

Corriere Buone Notizie, 30th march 2021

Il Recovery Plan offre delle grandi opportunità di crescita all’Italia dopo la crisi dovuta alla pandemia, ma comporta anche dei grandi rischi. Per trasformare davvero il Paese in chiave sostenibile bisognerà selezionare con attenzione i partner di questa svolta, se non si vuole restare ancorati a vecchi schemi, mette in guardia Mario Calderini, docente al Politecnico di Milano e direttore di Tiresia, il Centro di ricerca sulla finanza e l’innovazione per l’impatto sociale.

Quali sono i rischi a cui andiamo incontro?
«La battaglia della sostenibilità è vinta dal punto di vista dell’affermazione dell’importanza del principio per tutti, dalla finanza all’impresa, passando dalla politica. Ma questa rischia di essere ima vittoria di Pirro, perché abbiamo la sostenibilità da tutte le parti, solo che la parola non significa più niente».

Quindi c’è un rischio di banalizzazione? Di perdere l’occasione di una svolta?
«Si sta aprendo un grande scontro fra due interpretazioni della sostenibilità e il grande tema politico è quale delle due riusciremo a far prevalere. C’è un’interpretazione di maniera, che bada più che altro agli aspetti di marketing, ma non ha nessun potere trasformativo. E poi c’è un’altra interpretazione, che invece è più radicale e più profonda, che porta con sé uno slancio trasformativo. Il mondo della finanza e dell’industria si sta spaccando su queste due interpretazioni, come si è visto anche dal recentissimo licenziamento del Ceo di Danone Emmanuel Faber, che aveva preso molto sul serio il suo ruolo di rottura rispetto al passato, ma è stato avversato dagli azionisti più concentrati sul profitto, fino ad espellerlo dall’azienda che stava cercando di trasformare».

Come si dichiara guerra alla sostenibilità di maniera?
«Il grande tema politico non è tanto che il Recovery Plan si concentri sulla sostenibilità, perché questo va dato per scontato, ma che sposi una visione della sostenibilità più trasformativa. In sostanza, bisogna che le misure di sostenibilità del Recovery Plan siano intenzionali, misurabili e addizionali rispetto allo status quo, altrimenti non serviranno a nulla».

Si tratta di mettere dei paletti?
«Esatto, bisogna mettere dei paletti precisi e includere fra i candidati a svolgere il ruolo di partner privati nelle iniziative del Recovery Plan solo le imprese che dimostrano di avere un approccio alla sostenibilità davvero intenzionale, misurabile e addizionale. Se non mettiamo questi paletti il Recovery Plan diventerà un festival dell’opportunismo, senza alcuna capacità di trasformazione e di risposta alle grandi sfide che ci attendono».

Come ottenere questo risultato?
«C’è un dovere di tutti, dalle grandi associazioni ai politici alle università, di fare una battaglia per mettere paletti chiari su quali sono i parametri e su chi può candidarsi a partecipare ai progetti. Non possiamo permetterci l’inclusione a tutti i costi, bisogna fare i buttafuori e non i buttadentro».

Sta pensando anche alle grandi imprese partecipate dallo Stato?
«Certo, ci sono interessi enormi da parte delle partecipate di Stato e la politica deve essere capace di mettere un argine agli interessi che non portano a una sostenibilità intenzionale, misurabile e addizionale».

Misurare la sostenibilità, però, non è semplice…
«È vero, non ci siamo ancora arrivati e anzi siamo piuttosto lontani. Tutto si sta schiacciando sui criteri Esg, cioè sui parametri ambientali, sociali e di governance utilizzati dalla grande finanza, che però hanno tre gravi punti deboli. Il primo è che si tende a fissare dei parametri standard, sacrificando gli aspetti trasformativi specifici. Il secondo, che i criteri Esg hanno una tendenza centrifuga molto marcata, cioè tendono a indicare degli obiettivi planetari, perdendo di vista gli aspetti locali e l’impatto sui territori».

E il terzo?
«Nella storia della sostenibilità ci sono solo politiche verdi e quasi niente sul sociale. Il rischio più grande che vedo nel Recovery Plan è che ci sia un fortissimo sbilanciamento sugli obiettivi ambientali, con un potenziale di aumento delle diseguaglianza e di lacerazione interna alla società molto elevato, se non si starà attenti. Per scongiurarlo bisogna organizzare una seria agenda di contrasto alle diseguaglianze, altrimenti finiremo per creare nuove polarizzazioni, com’è avvenuto con la Carbon Tax in Francia».