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Integra, Integrale, Integralista. Così la comunicazione che fa bene per Mario Calderini

by Elena Grinta

beintelligent.eu, 21st October 2021

Mario Calderini è professore ordinario presso la School of Management del Politecnico di Milano, dove insegna Social Innovation ed è direttore di Tiresia, il Centro di ricerca sull’innovazione e la finanza ad impatto sociale. È stato consigliere scientifico del Ministro della ricerca e dell’innovazione e ha fatto parte del gruppo consultivo del Governo che ha redatto la Riforma del Terzo Settore. È stato membro della Task Force del Governo per gli investimenti a impatto sociale ed è Presidente del Foro per la Ricerca e l’Innovazione di Regione Lombardia. È presidente di Social Fare, il primo incubatore per start up a impatto sociale e siede nell’Advisory Board di Unicredit Italia e nel consiglio direttivo di Nesta Italia. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per BeIntelligent sul ruolo del marketing e della comunicazione in questa era di trasformazione positiva.

E.G. L’interesse principale del magazine BeIntelligent è analizzare i trend di comunicazione nella promozione di sostenibilità e responsabilità sociale; da quando i movimenti dei consumatori hanno (re)iniziato le proprie battaglie per il clima, per la salvaguardia delle specie, per i diritti umani… (e l’intellighenzia ha dato ampio spazio a questi temi) il numero di pubblicità e aziende che promuovono la propria sostenibilità e responsabilità è aumentata esponenzialmente (dati dell’Osservatorio sulla comunicazione che fa bene: +53% in 8 mesi): come legge questo fenomeno?

M.C. Ormai è finita la prima fase: quella dell’advocacy, del coinvolgimento, della consapevolezza. Per svariate ragioni la sostenibilità è al centro dell’agenda politica, imprenditoriale, finanziaria di molti Paesi, al contempo questo concetto è diventato anche il nuovo mainstream. L’importante è chiedersi cosa abbiamo messo dentro di sostanziale in questa parola, cosa c’è di concreto in questa spinta che le aziende hanno verso la sostenibilità? Prendiamo atto che tutti si sentono di aderire a questo standard e d’ora in avanti osserviamo quale sarà l’interpretazione genuina che gli verrà assegnata.

E.G. Anche le non-financial disclosure (NFD) stanno diventando uno strumento potente di comunicazione (si pensi ai molteplici premi esistenti: dallo storico Oscar di bilancio alla recente Biblioteca del bilancio Sociale o ancora il Premio al Report di Sostenibilità, alla sua II Edizione). In un recente intervento a TedX Varese lei ha affermato che “ESG, SDGSs, Bilancio sociale.. sono i nostri ‘falsi amici’. Il problema forse risiede nell’assenza di ‘metriche’ per misurare i dati riportati in quei bilanci? Se internazionalmente si attribuisse un obiettivo numerico per ogni ambito di bilancio analizzato, e l’azienda non lo raggiungesse in fase di rendicontazione, l’azienda potrebbe ancora pubblicizzare un proprio “falso” successo? e se si legasse il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità all’ottenimento di benefici e opportunità (sgravi fiscali? fondi di sostegno? gare ad appalti pubblici…) il bilancio ‘sostenibile’ non potrebbe diventare un ‘patto’ tra il pubblico e il privato?

M.C. Oggi abbiamo dei rischi, perché ovviamente tutti vorremmo che il termine sostenibilità venisse riempito dei significati che lo rendono più trasformativo e generativo, il pericolo che questo non avvenga è rappresentato dai seguenti fattori: prima cosa ci muoviamo all’interno di una grammatica ESG molto debole e viziata, il secondo è che noi siamo stati accompagnati nella prima fase da questi ‘falsi amici’ (o meglio che prima erano amici e che oggi sono delle zavorre) e mi riferisco alla  Responsabilità Sociale d’Impresa, il Sustainability Reporting etc. Perché sono ‘falsi amici’? Perché sono tutti figli di quella visione laterale, rendicontativa ex post della sostenibilità, spostano indietro le lancette dell’orologio di una visione che invece vedrebbe la sostenibilità e gli obiettivi di impatto salire al rango degli obiettivi di business e soprattutto in termini temporali, essere integrati ex ante nel momento in cui si prendono decisioni imprenditoriali, finanziarie e innovative. Questi sono due elementi di grande pericolo, la mia speranza (e qui il ruolo del marketing e della comunicazione diventa decisivo) è che rapidamente le imprese si rendano conto del paradosso per cui quando tutti adotteranno la sostenibilità poiché ne comprendono l’importanza, proprio in quel momento la sostenibilità cessa di essere un elemento di  posizionamento distintivo e non costituisce più un punto di vantaggio strategico; per trasformare di nuovo questa adesione, occorre avere un approccio alla comunicazione della sostenibilità radicale (ossia che prende atto della possibile rivalità tra obiettivi di profitto e sociali/ambientali) secondo i tre principi guida: intenzionalità, misurabilità e addizionalità. In secondo luogo, un posizionamento integrato, che non schiacci tutto il marketing sul verde, ma che prenda in considerazione anche la dimensione delle diseguaglianze sociali. Queste sono le due carte che chi comunica o si occupa di sostenibilità ha in mano per rendersi diverso. Un nuovo approccio è urgente, anche per rispondere al fenomeno della cosiddetta sustainability litigation che, a mio avviso, cambierà profondamente la sensibilità e la cura con cui si comunica: la società civile attraverso ricorsi e azioni legali chiede conto delle affermazioni propagandistiche circa la sostenibilità e responsabilità di impresa

E.G. c’è una sottile linea di separazione tra propaganda e inganno e purtroppo in questa “zona grigia” le aziende così come le agenzie possono agire liberamente. Una volta individuati gli illeciti probabili, nell’analisi costi/benefici molte aziende includono i costi delle sanzioni derivanti da un ‘litigio’, per alcune infinitesimale rispetto agli investimenti che possono allocare nella propagazione di un’immagine green. C’è chi sostiene – e Marina Spadafora di Fashion Revolution tra queste (leggi l‘intervista) – che finché le amministrazioni non interverranno con regole chiare e ‘decise’, si procederà per piccoli (timidi) passi, forse insufficienti. Lei come la pensa?

M.C. Confido nel potere del mercato come strumento sanzionatorio. Nel momento in cui vedo delle azioni intraprese dagli stakeholder e dai consumatori nei confronti delle aziende penso che sia quello l’unico strumento che può davvero invertire il comportamento. Philip Morris, ad esempio, è uscita dal business sigarette, questo ci dice che il timore che ormai hanno anche i grandi gruppi, rispetto a una certa pressione che gli stakeholder possono esercitare, è talmente elevato da stravolgere addirittura il processo dal punto di vista del prodotto.

E.G. Quindi ci dobbiamo aspettare che Eni uscirà presto dal business del petrolio?

M.C. La questione delle Energy Company e del settore oil&gas è molto complicata. Grande responsabilità ce l’hanno gli ambientalisti, per aver banalizzato i temi della transizione energetica. La vera soluzione è obbligare a un Sustainability Report integrale, un bilancio completo in cui si hanno nel dettaglio tutte le azioni intraprese dal punto di vista ambientale, sociale e di governance.  Questa soluzione potrebbe dare del filo da torcere all’eventuale greenwashing.

E.G. Vorrei tornare a un concetto a me molto caro, ossia quello dell’asimmetria informativa. Un consumatore “pigro” difficilmente ricerca informazioni per crearsi una propria opinione, tendenzialmente si fida di quello che legge e che viene diffuso dalle aziende.

M.C. Questa affermazione purtroppo è vera in generale, per l’intero mercato. Sicuramente è un grande problema e io porrei l’attenzione anche sul tema della trasformazione culturale. Tra i tanti soggetti che non stanno facendo la loro parte ci sono anche le Università che continuano a credere che il cambiamento verso un comportamento più sostenibile consista nel ‘sostituire le bottiglie di plastica con le borracce’. Non ci si può limitare a questo. La formazione di un consumatore più consapevole passa attraverso un’educazione integra, contribuendo in questo modo all’abbassamento del livello di asimmetria informativa.

La social taxonomy, una tassonomia ben realizzata e completa, aiuterebbe in questo senso. Attualmente il lavoro che stanno realizzando in Commissione Europea rischia di rendere la tassonomia ‘bipolare’ e quindi poco esemplificativa: si passa da un estremo (la Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo) all’altro (avere la palestra aziendale), e manca una tassonomia di ciò che sta in mezzo tra questi due estremi, spazio di mezzo in cui convergono i rapporti con la comunità, il patto sul valore economico di prossimità, le questioni ambientali di raggio breve… insomma tutti argomenti su cui le PMI dovrebbero costruire il loro valore. Questa è la madre di tutte le battaglie.

E. G. È plausibile immaginare una corsa alla sostenibilità a due velocità: chi sta rincorrendo gli obiettivi di sviluppo sostenibile – magari con lo scopo di adeguarsi alle nuove regole o con l’intento di soddisfare i bisogni dei propri clienti – e chi li anticipa, segnando il percorso anche per i regolatori – per intenderci: Patagonia, Lush, Tony’s Chocoloney…-? chi secondo lei può essere citato in Italia tra questi ‘precursori’?

M.C. Bisogna rivolgere lo sguardo alle società benefit. Porto l’esempio di Dermophysiologique azienda con una storia integra, nel senso che il loro core business è la produzione di cosmetici, con una specializzazione nella produzione di cosmetici post-oncologici per le donne. Tutto ciò ha un valore molto profondo e reale: incentivare l’utilizzo e facilitare l’accesso delle donne a prodotti di bellezza post-oncologici e farne la propria missione aziendale, mettendola nero su bianco nell’oggetto sociale, vuol dire essere disposti ad accettare quello che si definisce un Disproportionate Risk-Adjusted Return, ossia essere disponibili a rinunciare a una parte di profittabilità tenendo in considerazione il rischio. Significa che si ha un obiettivo trasformativo vero, integrato nel modello di impresa. Questa è l’addizionalità di cui parlo: essere disposti a mettere sul tavolo qualcosa in più, rinunciare a parte del rendimento in cambio di un impatto significativo nella direzione della sostenibilità. In una previsione ottimista, possiamo dire che quasi tutte le grandi rivoluzioni cominciano con un desiderio di addizionalità, ossia con la volontà di correre un rischio maggiore rispetto alla remunerazione: la rivoluzione del venture capital è consistita proprio in questo. La mia previsione è che da qui a 5 anni innovazione e sostenibilità diventeranno sinonimi così come lo è stato negli anni passati per venture capital e innovazione.

E.G. La sua più recente scelta di campo a livello professionale l’ha spinta a selezionare le aziende con cui collaborare in base al loro effettivo impegno verso la trasformazione positiva, quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi di questa strategia che lei stesso ha definito da “buttafuori”? Cosa suggerirebbe ai professionisti, le piccole imprese, le agenzie, che come lei vorrebbero collaborare solo o principalmente con aziende virtuose, ma devono fare i conti con l’economia della sopravvivenza?

M.C. Chi fa il mio mestiere deve fare innanzitutto un’opera di violenta demistificazione, che significa poi fare il “buttafuori”. Dal canto loro i giornalisti, facendo leva su questioni etiche e deontologiche (che andrebbero statuite attraverso un manifesto), devono prendere atto di questo esercizio di demistificazione, mettere dei confini ed esercitare una critica puntuale.

Ciò che davvero sta accadendo è che i processi di regolazione della sostenibilità non sono più esterni, legati a questioni etiche e valoriali, ma costituiscono un piano internalizzato nei meccanismi economici. Le dinamiche di mercato hanno tanti difetti, ma anche un pregio: sono spietate e non sono corruttibili, non sono comprabili, ti sanzionano e non ci puoi fare nulla. Ritengo che questa nouvelle vague di sostenibilità interna ai sistemi economici ci aiuterà molto.